Hodgson ha raccontato il suo approccio con il mondo Inter. Bella la sua descrizione di Massimo Moratti e dei calciatori a disposizione. Tra tutti spiccavano Roberto Carlos, Giuseppe Bergomi e Javier Zanetti. Di seguito le sue dichiarazioni a Coaches Voice (qui la prima parte)
C’erano delle difficoltà già in partenza: «Il primo ostacolo fu la lingua. La mia scarsa conoscenza dell’italiano significava che la comunicazione faceva spesso affidamento su esaltazioni, incoraggiamento, positività. Durante le sessioni di allenamento ci si incontra spesso con dimostrazioni e con la forza della propria personalità. I giocatori possono anche adattarsi rapidamente: non è come se insegnassi qualcosa che non hanno mai fatto o pensato. Quando si trattava di cose che avevano bisogno di spiegazioni specifiche, Giacinto Facchetti mi aiutava. Non parlava inglese, quindi gli parlavo in francese. Il problema era che, essendo molto preciso, non voleva dire nulla che non avessi fatto. Quindi le riunioni di lavoro duravano troppo tempo. Abbiamo sperimentato Paul Ince e Massimo Paganin che traducevano dall’inglese. Massimo, un buon giocatore, non è per niente come me come persona. Non è emerso nulla dello stesso tipo di passione».
Il racconto del Presidente: «Il padre di Massimo Moratti aveva posseduto il club a quei tempi fantastici. Da allora, Massimo era diventato proprietario, ed era il suo sogno fare quello che suo padre aveva fatto. Era molto colto. Un uomo molto educato, cortese. Elegante e, soprattutto, un grande tifoso. Vive e respira l’Inter più di chiunque altro, ma questo può essere un leggero svantaggio: quella passione entrava in contatto con molte altre persone che gli dicevano cosa bisognava fare quando Giacinto o io dicevamo qualcos’altro. Lavorare con lui è stato molto interessante, quindi sono grato per quel tempo. Mi ha trattato bene e sicuramente abbiamo avuto rispetto reciproco, anche se non abbiamo continuato a fare dell’Inter il club che voleva».
Il manager inglese descrive la squadra: «Avevo ereditato una squadra relativamente modesta. Roberto Carlos era lì per la prima stagione. Era una star, ma un giovane degli Under 21 brasiliani. Come Marco Branca, aveva un talento naturale donato da Dio. Javier Zanetti è diventato un grande nome, ma certamente non lo era allora. Paul Ince era l’altro grande giocatore straniero che aveva recentemente vinto la Premier League con il Manchester United. Avevamo anche Gianluca Pagliuca in porta e Giuseppe Bergomi in difesa. Javier non è nemmeno arrivato per diventare il grande giocatore che è diventato: si è fatto da solo. Aveva un’incredibile professionalità e il desiderio di trarre il meglio da se stesso. Qualunque cosa i suoi allenatori o gli allenatori atletici volessero che facesse, dimostrava che poteva farlo. Bergomi era lo stesso. Riguardava la quantità del loro lavoro, la loro serietà come professionisti e il fare sacrifici».
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